Proponiamo qui un'analisi un po' lunga, ma molto interessante, elaborata da un gruppo di donne intorno agli stessi temi toccati dall'appello Io non considero normale. Sarebbe interessante sviluppare queste riflessioni e, magari, tradurle in possibili azioni concrete.
Siamo un gruppo di donne diverse per età, professione e opzione politica, benché orientate a sinistra. Facciamo parte di quel vasto movimento di opinione femminile che ha reagito indignata al torbido intreccio di sesso e politica rivelato dai casi del presidente del Consiglio e del presidente della giunta del Lazio. Si tratta di un movimento composito che si è manifestato nei modi più vari (appelli, documenti, lettere, blog) esprimendo giudizi anche contrastanti sullo stato attuale dei rapporti tra i sessi in Italia.
Noi ci siamo ritrovate a condividere, innanzitutto, il disagio e lo sconcerto per l’acquiescente indifferenza con la quale gran parte del paese ha accolto fatti, rappresentazioni, discorsi fortemente lesivi della dignità delle donne. Volevamo capire come e perché nel corso degli anni si fosse venuto imponendo, nell’insieme dei mezzi di comunicazione e di intrattenimento, e senza provocare un’adeguata reazione, una immagine del femminile che, spacciata per spregiudicata e libera, offende elementari principi di rispetto e buon gusto e nasconde la crescita professionale civile e culturale delle donne italiane.
In secondo luogo gli appelli e i documenti che sono circolati ci hanno lasciate insoddisfatte o perplesse.
Non ci persuade l’idea che il degrado dell’etica pubblica, che si accompagna alla mercificazione del corpo femminile e al corrompersi delle istituzioni, sia riducibile allo strapotere di un solo individuo. Per dirla brutalmente, non ci pare opportuno che anche questa volta tutto si riduca a pretesto per parlare male di Berlusconi. In questo modo si distoglie l’attenzione da processi più di fondo che investono la società nel suo insieme. D’altra parte neppure ci convince la tesi che l’Italia, negli ultimi anni, abbia fatto un balzo all’indietro e che le donne siano vittime di un patriarcalismo di ritorno.
Né ci pare appropriato il curioso trionfalismo di una parte del femminismo che nelle sortite di Veronica Lario e di Patrizia D’Addario scopre i segni della indelebile iscrizione della libertà femminile.
Nella storia, le eleva ad eroine del cosiddetto post-patriarcato e nelle vicende che le riguardano scorge solo la miseria maschile.
Che cosa pensiamoA noi la situazione appare più complicata. La difficoltà che abbiamo provato noi stesse a giudicare in modo lineare fatti, persone, comportamenti (se condanniamo non cadiamo nel moralismo, nel puritanesimo? se ci appelliamo alla libertà non dimentichiamo quanto di oppressivo c’è nello scambio sesso-denaro-potere? Di quale libertà stiamo parlando?) ci pare nascere invece dal fatto che viviamo in un mondo segnato in profondità dal femminismo. Non solo perché è definitivamente tramontata l’idea di una naturale subordinazione delle donne: le nostre società occidentali si sono ormai organizzate sul presupposto della uguaglianza dei sessi. Ma perché la coscienza che hanno di sé le giovani e meno giovani donne italiane (anche quelle che si mettono in vendita), non è più quella di vittime, deboli e indifese. Si percepiscono libere e padrone di sé. Ed è sicuramente vero.
Ma basta allargare un po’ lo sguardo per rendersi conto che questa non è tutta la storia. La mutata coscienza delle donne non è in grado di controllare né le condizioni della loro esistenza e riproduzione né i modi con cui vengono rappresentate nei media e nelle istituzioni; e neppure ci si prova seriamente. Il controllo, ovvero, per chiamare le cose con il loro nome, il potere continua a stare nelle vecchie mani maschili, logore e miserabili quanto si vuole, ma ancora ben strette attorno alle leve del comando. E in questa estenuata conservazione sta una delle chiavi più serie per intendere il declino e la marginalizzazione dell’Italia rispetto al resto d’Europa.
Un radicale cambiamento si è certamente prodotto, ma secondo il modello della “rivoluzione passiva”.
I possenti movimenti di emancipazione e liberazione femminili, che avevano espresso nel corso degli anni ‘60 e ‘70 cultura e forza politica, hanno portato alla conquista di ampi diritti di cittadinanza per le donne italiane, ma si sono bloccati nel passaggio all’esercizio pieno della decisione politica, lasciandone ancora una volta la responsabilità nelle sole mani degli uomini. Così, noi italiane siamo soggetti di una ampia gamma di diritti, ma drammaticamente incapaci di esercitare individualmente e collettivamente azione politica, tanto che gli stessi diritti riconosciuti spesso stentano a tradursi nella realtà e restano una cornice astratta. Nel campo del lavoro, del welfare, della maternità, del sistema dei media, nelle rappresentanze istituzionali si verificano scarti talmente forti tra principi e realtà che la libertà rischia di continuo di scivolare nella subalternità.
Sicuramente, sul piano strettamente personale, è veritiero il quadro, delineato da ricerche e dalle testimonianze delle donne più giovani, di una crescente inconsistenza dell’identità maschile resa più evidente dal confronto con una forza femminile sempre più consapevole. È però altrettanto vero che la forza femminile priva di una adeguata proiezione pubblica rischia di riprodurre il cliché del matriarcalismo della tradizione familiare italiana, aggravato e stravolto dalla crisi dell’istituto familiare.
Il confronto con gli altri grandi paesi europei quantifica e fissa questo scarto in cifre e ci restituisce l’immagine di un paese fragile anche perché tiene le donne ai margini dello sviluppo civile e politico. Basta ricordare come l'Italia sia il paese dove coincidono il più basso tasso d'occupazione femminile e il più basso tasso di natalità.
La domanda che ci siamo, dunque, poste è come è potuto accadere che la grande forza delle donne italiane che aveva sprigionato tanta soggettività politica e culturale, si sia acconciata a godere di diritti e libertà soggettivi, rinunciando di fatto a misurarsi con la sfida della responsabilità politica. Sembra rimasta inchiodata alla rivendicazione senza provare seriamente ad esercitare una qualche egemonia, quasi ‘scartando’ rispetto a questa possibilità.
Non è facile rispondere, sono in gioco tanti aspetti, noi proviamo ad indicarne alcuni, sapendo che raccontano solo una parte della storia.
Innanzitutto non si può ignorare il contesto politico e il modo in cui hanno interagito i movimenti delle donne e l’insieme dei partiti e delle istituzioni.
Guardando al resto dell’Europa si può rilevare che sia i partiti conservatori che quelli socialdemocratici hanno reagito alla crisi della rappresentanza, esplosa tra gli anni ‘70 e ‘80, aprendosi alle pressioni delle donne ed attuando un parziale ricambio delle classi dirigenti. In Italia, no. In Italia questo processo è abortito. Altrove, dai paesi scandinavi alla Francia e Germania, sono state introdotte ed attuate norme antidiscriminatorie, quote, politiche di welfare in favore delle donne, ecc. e tutto ciò ha consentito un più equilibrato rapporto tra la forza femminile e il suo peso sociale e politico. In Italia ne stiamo ancora discutendo. Perché questo divario?
Una possibile spiegazione sta nella rottura traumatica del sistema dei partiti agli inizi degli anni ‘90 che ha favorito una massiccia e pervasiva penetrazione dell’ondata neoconservatrice, di dimensione sconosciuta agli altri grandi paesi europei. La cultura che si è venuta imponendo colpiva al cuore idee e valori del femminismo. La destra italiana, tradizionalmente misogina e malthusiana, l’ha fatta propria e cavalcata, e solo recentemente, in alcune sue punte, comincia a percepire il significato “nazionale” della presenza femminile nelle istituzioni.
Le responsabilità che ricadono sugli attori politici e sindacali della sinistra italiana appaiono, a questo riguardo, grandi. È stata pagata duramente dalle donne e dall’insieme del paese la loro profonda incomprensione di cosa significhi una forte e larga presenza di donne nei centri decisionali e rappresentativi. Una politica “dalla parte delle donne” sarebbe stata (e tuttora sarebbe) un contributo eccezionale alla formazione di una nuova alleanza sociale riformatrice, dopo l’epoca “fordista” e dopo il welfare patriarcale, in grado di rivolgersi a tutti i cittadini e le forze sociali. Continuare a non affrontare e risolvere questa questione è una delle ragioni della persistente debolezza delle forze della sinistra.
Ma se ha contato la miopia delle forze della sinistra, non ci pare trascurabile la sponda offerta all’ondata neoconservatrice dalle culture politiche femministe risultate dominanti. L’anti-istituzionalismo e l’individualismo sia di stampo radicale che liberal-conservatore hanno avuto la meglio sui vari tentativi di affrontare collettivamente, come forza femminile organizzata, il tornante della rappresentanza sia nelle istituzioni politiche che negli organismi sociali (dal sindacato ai vari enti della società civile).
In Italia è stata dominante in questi ultimi decenni l’ideologia iper-liberale della forza dell’individuo, contrapposta a ogni forma di organizzazione collettiva, artatamente rappresentata come livellatrice delle eccellenze nonché fonte di debolezza. Le donne sono state al contempo oggetto e veicolo di quella ideologia. Occorre ricordare il terribile dibattito, a ridosso delle elezioni del 1993, sulle donne di destra che vincevano perché da singole non chiedevano la tutela delle “quote”, a differenza delle donne di sinistra perdenti perché abbarbicate alla dimensione collettiva? Fu così che nella opinione pubblica femminile si diffuse il convincimento che ciò che contava era la capacità di rappresentazione simbolica, ossia il coagularsi della potenza femminile intorno a figure carismatiche. E fu scartato un altro possibile percorso, irto di ostacoli, ma trasparente e democratico: quello delle donne che decidono e scelgono le loro leader, a loro volta in grado di giudicare in base a criteri non discriminatori altre donne rappresentative della forza femminile nella società, nelle professioni, nei mestieri, nelle Istituzioni. Sappiamo del resto per esperienza quanto arduo sia questo cammino per la difficoltà delle donne a gestire i rapporti di potere fra loro. Le donne in genere non sopportano di essere giudicate e scelte da donne, tanto che alcune scuole psicanalitiche attribuiscono all’identità femminile qua talis tale resistenza.
E così queste difficoltà ci hanno portato dove siamo: alla cooptazione al ribasso da parte degli uomini di poche donne, prive di legami “organici” con la società femminile e quindi di una base autonoma di consenso e di forza politica.
Gli stessi organismi e le politiche di pari opportunità si sono rivelati contenitori vuoti, buoni a dare qualche contentino più che a far crescere una classe dirigente femminile.
È in questo quadro che è andata svanendo una delle acquisizioni più importanti del patrimonio culturale del femminismo italiano e cioè l’idea dell’uguaglianza e della differenza tra i sessi. Conquistare la parità con gli uomini non significa affatto per le donne diventare come loro, fare le stesse cose. Anzi era stata coltivata la grande ambizione di costruire una società a misura dei due sessi, se è vero che essere donna non è una disgrazia né della natura né della storia ma una della manifestazione della differenza interna all’umanità che va lasciata libera di esprimere tutto il suo “genio”. Dinanzi alla mancata realizzazione di almeno alcune delle promesse (dalla conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, a politiche in favore della maternità oltre alla marginalizzazione dei giovani, uomini e donne dalla dinamica sociale) si sono riproposti modelli puramente emancipativi della libertà femminile oppure, seguendo un’onda culturale che proveniva dagli Stati Uniti, si è pensato di eliminare alla radice il problema adottando l’ideale del transgender, ovvero di portare all’estremo la decostruzione del genere femminile e maschile, sino all’annullamento dell’identità sessuata. In nome di una libertà che presume di poter plasmare e mutare corpi e vita a proprio piacimento si avanza sul terreno della cancellazione delle donne dall’agenda politica e culturale. Non a caso negli ultimi anni le battaglie che hanno avuto più forte impatto politico e mediatico sono quelle per i diritti degli omosessuali e non a caso nella disgraziata vicenda del referendum sulla legge 40, sulla procreazione assistita, a dare il tono alla campagna referendaria sono stati gli scienziati sino a configurarla prevalentemente come una battaglia per la libertà della ricerca.
Contemporaneamente dagli schermi televisivi, dalle copertine dei giornali e delle riviste passano immagini di donne cosiddetti vincenti la cui unica o principale prerogativa è quella di avere un corpo appetibile per il desiderio di maschi pronti a comprarselo.
C’è qualcosa che non va nello scarto che avvertiamo tra le energie, la generosità, l’impegno, il valore di milioni di donne italiane e la misogina e stantia composizione delle classi dirigenti italiane.
Sappiamo anche che ci sono questioni rimaste aperte dalla stagione del femminismo e vogliamo provare a rimetterle al centro.
Che cosa vogliamoVogliamo innanzitutto creare una rete, elastica ed informale, di collegamento tra le mille realtà associative, piccoli gruppi, donne singole che avvertono come noi l’insostenibilità dello stato di cose presenti e mirano a spezzare i quadri bloccati della democrazia italiana.
Vogliamo passare dalla rivendicazione di diritti per le donne alla prova dell’esercizio della responsabilità politica. Siamo al dopo femminismo.
E per questo crediamo sia necessario un pensiero, una riflessione che riguardi i due sessi, gli uomini e le donne. La miseria maschile non costituisce una maggior forza delle donne. Tutt’altro. Il rapporto tra i sessi non è a somma zero.
Vogliamo aprire un dibattito ampio, che abbia effetti concreti ad esempio sui media, su che cosa intendiamo per libertà. Se crediamo che l’aprirsi alla libertà delle donne introduca qualcosa di inedito nella storia della libertà oppure sia solo la semplice estensione delle concezioni esistenti.
Come far valere su un piano generale l’esperienza che le donne hanno del corpo anche come limite, da cui scaturisce la coscienza del limite, della non autosufficienza, della creaturalità. Una libertà intrisa di questa consapevolezza è ciò di cui avvertiamo la mancanza.
Marina Calloni, Cristina Comencini, Fabrizia Giuliani, Serena Sapegno